Arch. Elisabetta Cicerchia
Bisogna portare l’acqua alle fontane e portare l’acqua sin dai tempi antichi avveniva attraverso gli acquedotti.
Facciamo una brevissima storia, un breve racconto di come questo avveniva.
Tutte le grandi civiltà antiche erano dotate di una organizzazione molto complessa per affrontare la vita quotidiana e organizzare il territorio.
Quindi per i popoli antichi l’approvvigionamento dell’acqua potabile era sicuramente il problema più difficile.
Il sistema più antico fu quello di raccogliere le acque, le acque piovane o direttamente dai tetti venivano incanalate per essere convogliate all’interno di cisterne ma, l’espansione del tessuto urbano e soprattutto il mutare delle esigenze degli abitanti e i nuovi stili di vita di tutti i cittadini che iniziavano a inurbarsi, si ricorse alla raccolta di acque sotterranee mediante la costruzione di grandi pozzi o di robusti serbatoi nei quali l’acqua veniva lasciata inutilizzata per un certo periodo di tempo affinché questa facesse depositare i fanghi e tutte le particelle, quindi iniziava la decantazione dopodiché poteva essere utilizzata.
Da qui i primissimi acquedotti che vennero trovati già nel bacino del Mediterraneo al tempo di Creta in Grecia, in Asia minore, in Mesopotamia e durante le campagne di scavi gli archeologi hanno trovato resti di tubazioni e da questi sono riusciti a comprendere come funzionava e era un funzionamento elementare questo dei primi acquedotti, cioè cercavano le sorgenti che erano situate in luoghi elevati e le facevano scendere nelle vallate per poi risalire sfruttando il principio dei vasi comunicanti, all’interno quindi dei centri abitati, ma questo non era sempre possibile e si creavano anche molte, molte disfunzioni e delle aree che non potevano essere servite.
In epoche successive e a questo punto arriviamo all’epoca dei romani, affrontarono il problema del rifornimento idrico in maniera decisamente più evoluta con tecniche di ingegneria idraulica del tutto innovative ed edificarono delle strutture molto resistenti che ancora oggi noi possiamo vedere che ci colpiscono soprattutto per la loro importanza, dimensione e a volte anche per funzionalità.
Le rovine degli antichi acquedotti romani che oggi li troviamo come veri e propri monumenti dell’acqua hanno da secoli interessato gli studiosi, gli archeologi ma soprattutto gli ingegneri.
L’Urbe riuscì a rifornirsi d’acqua dall’agro romano circostante con una portata complessiva che arrivò nei momenti di massimo splendore del periodo romano a circa metri cubi secondo, per dare una idea è circa la metà dell’attuale fabbisogno di acqua, il che dà una idea anche della complessità delle opere che furono in grado di realizzare nel corso dei diversi secoli.
Essi captavano le acque prevalentemente dalla zona orientale dei Monti Simbruini che noi oggi conosciamo come Monti Simbruini, il nome era appunto Sub Ibrus, ovvero sotto la pioggia, erano monti che fornivano grandi quantità di acqua e questa poteva essere portata a Roma provenendo dalla zona sud est, questa è una mappa molto sintetica che mostra come il fascio dei principali acquedotti venisse proprio dalla zona Tiburtina e dai Monti Simbruini.
Per arrivare a Roma, entrando quindi dalla parte sud est, gli acquedotti dovevano superare, anche questi, delle grandi difficoltà orografiche, c’erano notevoli dislivelli e gli antichi certo non erano in grado di gestire dei condotti a pressione, non ne avevano ancora la disponibilità, ma erano riusciti a fare arrivare comunque questa acqua attraverso dei canali protetti che scorrevano a pelo libero con una pendenza praticamente costante.
La necessità di mantenere costante la pendenza divenne effettivamente drammatica in molte zone prima di entrare a Roma, il che obbligò gli ingegneri romani a progettare sistemi di tubazione interrate per superare i tratti di rilievo e le gallerie, oppure delle maestose arcate per superare i fossi.
Da qui emerge che uno dei problemi che dovettero affrontare era proprio la pressione dell’acqua che veniva incanalata nelle tubature che per quel tempo era veramente un problema insolubile, i Romani non potevano dotarsi di grandi tubi di grande diametro come noi abbiamo oggi e, quindi, non avrebbero in altra maniera potuto fare fronte a questo problema e soprattutto resistere alla pressione.
Nel terzo secolo dopo Cristo Roma contava una popolazione di un milione di abitanti ma avevano già costruito undici acquedotti che sono quelli che abbiamo visto nei tracciati precedenti e tra i più noti possiamo ricordare l’Acqua Appia che fu il primo, l’Anio Vetus, l’Anio Novus, l’Acqua Claudia, Vergine, Marcia, la Tepula, la Adriana, l’Acqua Alessandrina etc., questi i più noti.
Dovevano in realtà soddisfare un grande fabbisogno, il milione di abitanti che nel terzo secolo appunto si contava fossero già insediati, assicuravano a ogni cittadino mille litri di acqua al giorno, queste quantità di acqua servivano i bagni pubblici, i bagni privati, moltissime fontane o rifornivano le cisterne.
Queste non furono mai abbandonate perché la cisterna era una grande risorsa in caso di bisogno.
Come costruivano? Una vera e propria scienza idraulica hanno applicato e individuata la sorgente verificavano la qualità delle acque, perché anche al tempo ogni acqua aveva il suo sapore, eseguivano le opere di captazioni quindi gli incili che qui vediamo rappresentati, si procedeva in intubamento, sbarramenti, venivano canalizzate e queste acque condotte prima nelle vasche di decantazione e poi nei condotti per raggiungere l’urbe.
Il canale di deflusso all’interno del quale scorreva l’acqua a pelo libero, aveva una copertura piatta a volta o a cappuccina, si vede una sezione di resti degli antichi acquedotti dove proprio c’era lo spazio dove l’acqua scorreva.
Il canale di deflusso abbiamo visto correva proprio all’interno di quel passaggio.
Per mantenere la pendenza dell’acqua, assecondare e superare le ardite morfologie del terreno furono realizzare delle sostruzioni, queste grandissime arcate anche a doppio arco che oggi ancora troviamo in grandissime vestigia e queste gallerie erano garantite da periodica, costante e accuratissima manutenzione.
Le costruzioni erano in mattoni e pietra, veniva cementata e intonacata e questo faceva sì che poteva contenere la vibrazione dell’acqua che scorreva in velocità.
L’acqua erogata dagli acquedotti era in parte destinata a tutti i cittadini che potevano attingerla gratuitamente dalle fontane pubbliche.
L’acqua che residuava, la caduca, veniva concessa dietro pagamento con una tassa annua ai proprietari dei bagni e dei lavatoi.
Quindi l’acqua a Roma è stata amministrata sempre da una figura che si chiamava il Procuratore Acquarum, dal primo secolo avanti Cristo, fino al quarto secolo dopo Cristo.
Gli acquedotti funzionarono fino ai tempi più recenti e furono ammodernati, migliorati fino a arrivare al periodo del Papato, come prima si diceva delle fontane di cui ha parlato l’Architetto Moroni.
Qui possiamo citare Sisto V che tra il 1585 e il 1587 realizzò un nuovo acquedotto riutilizzando le sorgenti dell’Acqua Alessandrina e per tratti recuperando il tracciato dell’Acqua Marcia, entrava a Roma dalla Via Tuscolana precisamente a Porta Furba ed era l’Acqua Felice e questa è la fontana che sta all’inizio del Mandrione che è la mostra dell’Acqua Felice.
Successivamente nel 1605 Paolo V incarica Carlo Maderno, Giovanni Fontana e tanti altri Architetti di migliorare l’approvvigionamento della zona ovest e questa entrava attraverso quella che oggi è nota come l’Acqua Paola dove la mostra dell’Acqua Paola che è il fontanone del Gianicolo che vediamo qui in immagini antiche e più recenti.
Nel 1870 quindi poco prima della fine del potere temporale del Papato, si realizza a opera di Pio IX un ulteriore riadattamento dell’Acquedotto dell’Acqua Marcia che culmina nella fontana delle Naiadi a Piazza Esedra e prima nell’altra fontana che oggi troviamo in Largo di Santa Susanna e questo è il trionfo dell’acqua di Papa Pio IX.
Poi ci sono stati gli interventi in epoca più moderna e contemporanea, nel 1937 dal Fiume Velino viene costruito l’Acquedotto del Peschiera, nel 1960 l’Acquedotto dell’Appio Claudio, negli anni sessanta l’Acquedotto Appio Alessandrino farà fronte a tutta la nuova espansione della zona est di Roma.
Poi caliamoci nella nostra realtà e quindi nell’area dei Castelli Romani e delle Colline Tuscolane che nel tempo lunghi tragitti e alcune deviazioni vennero fatte proprio da questi antichi acquedotti per alimentare prima le residenze romane, ne abbiamo citate molte anche negli interventi precedenti e successivamente alle residenze di Villeggiatura delle famiglie principesche o dei nobili che villeggiavano in queste zone.
Furono rinforzati con l’ausilio e l’integrazione di altre sorgenti in loco, nella fattispecie quella di Palazzolo e Palafitto e sono prossime ai Comuni di Rocca di Papa, Ariccia e Albano.
Da queste sorgenti il più antico tracciato è quello detto delle Cento Bocche che arriva a alimentare a Albano anche Villa Doria e si lega alle sorgenti del Malafitto da cui venne realizzato un duplice acquedotto: il Malafitto Alto e il Malafitto Basso, questo ultimo con tecniche meno di qualità, infatti non esiste più.
Comunque da questa sorgente, quindi dal Palazzolo, arrivava l’acqua che arriva…, non so se arriva ancora oggi vicino alla cisterna detta Torlonia e da qui arrivava a alimentare la Fontana Berniniana che è in piazza a Castel Gandolfo.
Oggi l’acqua di questa fontana viene dalle sorgenti Palazzolo e Malafitto e sono gestite da un Consorzio di antica formazione che risale al 1899 che tutt’oggi è ancora in essere, questo Consorzio vede riunite moltissime figure e che abbisogna anche di interventi.
Comunque lungo il percorso questo acquedotto, io vi mostro un disegno, non so se si vede, che è legato a questa antica convenzione di costituzione del Consorzio, dove si vede il percorso che dalle sorgenti del Palazzolo, partono due condotti di cui uno di esclusivo uso del Palazzo Apostolico e un altro è quello che arriva, come vedete, direttamente alla Fontana che sta in Piazza di fronte al Comune, da questa fontana, prima di arrivare naturalmente ci sono molte deviazioni che portano l’acqua anche a altre zone, parte da Albano e arriva sotto la fontana di Piazza della Libertà dove un ripartitore ridistribuisce a sua volta questa acqua portandone una parte alla Santa sede nuovamente, una parte va nelle zone più a valle tra cui anche il Ninfeo di Palazzo del Drago e l’altra residua un tempo andava anche alla Proprietà Torlonia e dalle Suore Immacolatine.
Oggi quest’acqua va persa, non la prende più nessuno.